Quesito amletico che difficilmente può trovare una risposta univoca e valida in ogni circostanza, perchè – ed è una fortuna – tendiamo sempre a differenziare e proprio questo fa di noi dei sistemi in continua evoluzione. Individuare somiglianze e differenze ci permette di definire il nostro mondo in maniera sempre più nitida.
Ragionando tuttavia a un livello superordinato, che sia valido cioè per gran parte dei nostri processi (di scelta, di pensiero e di comportamento), è possibile immaginare alcune delle implicazioni dell’una e dell’altra prospettiva.
Il rimorso è quel sentimento, a connotazione negativa, che si prova quando si sente di aver compromesso irrimediabilmente qualcosa con le proprie scelte. Ci dice che non è più possibile tornare indietro nel tempo, quando è la cosa che forse più vorremmo poter fare. Il rimorso è il riconoscimento che le nostre azioni hanno generato esiti meno desiderabili delle condizioni preliminari.
Anche il rimpianto ha a che fare con il tempo e anche questo sentimento sembra dirci che indietro non si può tornare per fare ciò che forse avrebbe reso le cose migliori. Il rimpianto ci parla delle scelte escluse e della consapevolezza che se portate avanti avrebbero generato esiti preferibili rispetto a quelli ottenuti con le scelte intraprese.
Entrambi questi sentimenti hanno rami nel presente e radici nel passato. Entrambe queste consapevolezze ci incastrano nella logica del giusto/sbagliato. L’uno ci dice che abbiamo commesso azioni sbagliate e che non possiamo cancellarne le conseguenze, l’altro ci dice che avremmo dovuto fare di più, o almeno di meglio.
In questi termini sembra che ci si possa al massimo rassegnare e, se siamo proprio bravi, consolare.
A mio avviso si può però guardare la questione con altri occhi: gli occhi di chi è protagonista della propria vita, sempre.
In particolare è interessante riflettere sulla previsione di rimorso/rimpianto: il principale motore delle nostre azioni è infatti la previsione di cosa potrebbe succedere e non è raro che uno dei criteri principali sia il voler fare la cosa giusta. Si agisce volendo evitare il rischio che qualcosa vada storto, che ci si possa pentire, magari persino vergognare delle proprie azioni e volerle rinnegare, in altre parole si agisce per evitare futuri rimorsi.
In questo caso si tende a mettersi in gioco il meno possibile (si sa che solo chi fa può sbagliare). Si danno per buone le proprie previsioni e si sceglie di non metterle a verifica. Si evita l’incontro con la realtà e il confronto con la possibilità di dover rivedere le ipotesi che ci guidano. Semplicemente smettiamo di essere noi a guidare tali ipotesi e rinunciamo al potere di rivederle, integrarle, scoprirle non valide o smentite, elaborarne di nuove…
Questo, in termini costruttivisti, equivale a non fare esperienza, laddove il fare esperienza significa mantenere vivo il processo di costruzione del nostro mondo: acquisire informazioni derivate dagli esiti dei nostri esperimenti sociali, delle nostre azioni, (qualsiasi siano tali esiti) e rimetterli in circolo nel processo di costruzione di significati, formulare nuove ipotesi alla luce di quanto raccolto in seguito alle azioni già compiute. Questo ci permette di evolvere, di progredire e di sentirci vivi, scegliere di evitare il rischio di fallimento significa invece scegliere l’immobilità, lo stallo.
Nell’altro caso, volendo invece evitare e prevenire rimpianti, agire e non castrare a priori delle alternative di scelta, ci porta a sottoporre a verifica le nostre ipotesi ponendoci a un livello di umiltà tale per cui siamo disponibili ad imparare ancora nella vita, prima che a voler insegnare. Mettersi in gioco potrebbe portarci a nuove e inattese scoperte da immettere poi nelle nostre nuove ipotesi che a loro volta metteremo in gioco nel nostro agire e nel nostro essere in relazione con gli altri e con noi stessi.
Vorrei fare a questo punto delle precisazioni.
Se da un lato mi sento di promuovere e sponsorizzare il partito del “meglio un rimorso”, dall’altro reputo utile sottolineare almeno due casi in cui seguire questo principio potrebbe avere effetti tutt’altro che utili.
L’accanimento
“Meglio un rimorso che un rimpianto” può essere un motto utile a favorire movimento, ma va inteso cum grano salis, soprattutto nella medesima situazione: sarebbe controproducente impiegare questo pensiero come motivazione per accanirsi su una strada che abbiamo già percorso e che continua a condurci verso una meta deludente. Bisogna distinguere tra il mettere in gioco parti nuove di noi per costruire qualcosa di effettivamente diverso e il cercare di estorcere risultati diversi a fronte di una nostra incapacità di accettare e integrare le nostre ipotesi alle info utili per cambiare direzione. Tentare e ritentare il medesimo esperimento nella speranza di ottenere finalmente conferma delle nostre ipotesi di partenza sarebbe inutile e anche molto doloroso. Distinguere l’accanimento dalla voglia di mettersi in gioco può non essere facile, ci possono essere momenti in cui ci si sente sicuri di quel che si vuole ottenere e momenti in cui ci si sente dei falliti e si vorrebbe mollare tutto, per poi tornare a ripercorrere la stessa strada e ancora una volta tornarne frustrati, fino al punto in cui si ha la sensazione soffocante di perdere comunque e inconsapevolmente ci si chiede se si fallisce ogni volta che non si ottiene ciò che si era sperato o se si fallisce quando non ci si riprova.
L’impulsività
“Meglio un rimorso che un rimpianto” come già detto può essere un ottimo carburante per ingranare nelle nostre scelte, tuttavia può esporci a numerosi fallimenti se viene applicato come unico criterio. Il sottoporre a verifica le nostre idee, traducendole in azioni ed esperimenti sociali, è uno strumento fondamentale per i sensori del nostro benessere, tuttavia è utile prendersi il tempo e la lucidità necessari per vagliare più di una opzione. Fare dell’impulsività uno stile di vita equivale infatti a rinchiuderci in un corridoio stretto dove non contempliamo molte possibilità di movimento, in altre parole abbatte gran parte delle alternative che possiamo avere a disposizione, traducendosi in un senso di oppressione e vincolo.
In entrambe queste situazioni si può stare molto male e ci si può sentire in colpa per non saper fare qualcosa di diverso. In entrambe queste situazioni però qualcosa di diverso si può costruire, si può trovare una alternativa al senso di fallimento e alla frustrazione continua, il corridoio si può ampliare con un aiuto qualificato e le scelte del passato possono smettere di pendere come ghigliottina su quelle attuali e future.
Dr.ssa Veronica Mormina
Psicologa