Un buon modo, moderno, per non essere in contatto con le nostre emozioni “scomode” è sicuramente quello di riempire il proprio tempo nella ricerca di oggetti del desiderio.
Sempre più spesso questi oggetti sono acquistabili in cambio di denaro.
Altre volte sono desideri collegati a idealizzazioni (“se avessi quel corpo, se apparissi in quel modo, se facessi quei viaggi…”).
Non dobbiamo avere, per essere.
Il consumismo emotivo è un fenomeno a cui partecipiamo quotidianamente, lavorando per guadagnare soldi che spenderemo per acquistare beni, trascurando e disconnettendoci dai nostri bisogni profondi.
Si tratta della ricerca di qualcosa al di fuori, per dare valore a quello che si è dentro.
Tutto questo ha un costo personale e sociale enorme.
Non importa che quel qualcosa sia frivolo o nobile.
Che siano le unghie laccate ogni due settimane secondo i trend, o il calendario in carta riciclata con le illustrazioni degli animali in via d’estinzione, il focus rimane lo stesso: la ricerca all’esterno che ci allontana dal nostro interno.
“Ricerca” perché impieghiamo il nostro tempo e le nostre energie per procurarci o cercare di raggiungere quelle risorse esterne. Pagando con il nostro tempo, più che con il nostro denaro. Saturando il nostro pianeta di rifiuti e favorendo lo sfruttamento di risorse naturali e umane in modo indiscriminato e non sostenibile.
Facciamo questo nel tentativo di stare meglio, ma tutto quello che realmente facciamo è silenziare i segnali di discomfort della nostra vita.
Cosa ci espone maggiormente al consumismo emotivo?
Bassa autostima e sindrome dell’impostore.
“Non ne so abbastanza, non ne ho abbastanza, non sono abbastanza, quello che ho è inferiore a quello che dovrei avere”. La perenne sensazione di essere incompleti e manchevoli è una leva perfetta per gli acquisti.
Bisogni affettivi e cognitivi frustrati.
Essere mentalmente esausti, subire il multitasking, dividere la propria attenzione su decine di fronti contemporaneamente, rende davvero difficile porsi domande e dedicarsi all’elaborazione di risposte che non siano preparate per noi e gentilmente offerte da qualche sponsor.
Ineducazione emotiva e relazionale.
L’impossibilità di comunicare i nostri bisogni a chi abbiamo vicino e la disconnessione emotiva rendono ardua la costruzione di relazioni profonde, in cui poter condividere reciprocamente gli stati emotivi e entro cui poter elaborare strategie di coping personalizzate e basate su una buona valutazione delle risorse, non solo sulla rassegna delle nostre mancanze (anche questa gentilmente offerta da qualche sponsor!).
Il tempo è denaro.
Lo sappiamo da sempre, eppure spendiamo il nostro denaro come se non sapessimo quello che ci costa.
Spendere denaro in qualcosa che ci promette di renderci cool è un modo sofisticato per spegnere, a intermittenza, il nostro segnale di ansia, la nostra frustrazione, la fatica nelle relazioni e, in generale, il nostro stare scomodi.
Acquisire oggetti e servizi ci illude di appagare bisogni nostri, saltandone una seria e attenta mappatura.
Se davvero ci chiedessimo di cosa abbiamo bisogno, scopriremmo:
- che la maggior parte di quelle cose non si acquista in denaro,
- che abbiamo bisogno di investire il nostro tempo in relazioni e manutenzione emotiva,
- che prenderci cura di noi non ha a che fare con l’utilizzo della migliore crema viso, o qualsiasi altra cosa che si possa ottenere semplicemente digitando il pin del bancomat,
- che le cose che più ci servono non sono cose.
Se ci soffermassimo un po’ meglio sui nostri bisogni, probabilmente cominceremmo tutti a scalare le marce, a correre di meno, lavorare di meno, affannarci di meno.
Consumare di meno, consumarci di meno.
Avere tanto non ci arricchisce.
Sento tante persone che non si concedono qualcosa che sarebbe veramente lifechanging perché ritengono di non poterselo permettere economicamente. Magari non si separano da un partner con cui sono infelici da tempo perché ritengono di non potercela fare con le spese, o non si rivolgono a un personal trainer perché graverebbe sulle loro finanze e evitano di iniziare un lavoro di psicoterapia perché tanto dispendioso.
Ognuna di queste attività rappresenta di certo una spesa sostanziosa, ma quanto ci costa il continuo cercare di accontentarci di quello che, in effetti, non ci va bene e non ci fa bene?
Forse restare in casa con il partner che non amiamo ci sembra una soluzione economicamente sostenibile, ma cambieremmo prospettiva se quantificassimo quanto spendiamo per compensare tutta quella infelicità, indugiando nel consumismo emotivo?
Gli acquisti piccoli, quelli che sembrano alla nostra portata, ci danno una gratificazione immediata, ma non ci aiutano a spostarci dall’infelicità cronica. Anzi. Ci forniscono ottimi alibi per continuare a resistere.
Quando pensiamo al costo di qualcosa, chiediamoci cosa davvero stiamo pagando.
Possiamo scegliere di vivere o di consumare il tempo che abbiamo a disposizione.
La prima opzione richiede silenzio, attesa, ascolto e, talvolta, momenti di discomfort. Il secondo è alla portata di tutti, sempre e a buon mercato. Pardon, gentilmente offerto.
Downshifting
Questa parola è una promessa che possiamo farci.
Rallentare, scalare le marce, recuperare le essenze, semplificare, lavorare meno, consumare meno, inquinare meno, spendersi meno.
Possiamo fare downshifting come rimedio al consumismo emotivo, che non é solo consumo smodato di risorse e beni, ma consumo di noi stessi.
Rendersi poveri di cose per arricchirsi di vita, di equilibrio, di storie e di significati.
Possiamo vivere il tempo della nostra vita, lunga o corta che sia, piuttosto che correre verso la sua fine, senza accorgerci di nulla, senza poterci porre domande per paura delle risposte.
Anche se una inversione di marcia sembra impossibile, non lo è affatto, back to basics é una direzione possibile, anche se (e soprattutto perché) senza sponsor.