Accomodati, oggi ti offro un caffè e ti racconto una storia d’amore. La mia.
Terza elementare, uscita di scuola, in fila per due, stringo la mano di Enrico e cercando di ingannare l’attesa del suono della campanella, con la curiosità tipica di quell’età chiedo:
“che lavoro fa il tuo papà? ”
– “pedagogista”.
– “…peda…che?”
– “pedagogista!”
– “…. ma… come… che cosa fa… per esempio?”
– …ecco lui fa… bhe.. fa..mmm ah ecco! per esempio, lui guarda la scrittura dei bambini e capisce il loro carattere…”
– ooh…
Qualche minuto dopo, arrivata a casa comunico alla mia famiglia che non farò la pediatra da grande, come ho asserito fino ad allora.
No, io da grande avrei fatto quella che capiva le persone, a partire da piccole cose! Forse pedagogista, o forse altro, ma avrei cercato di capire le persone, per lavoro.
Ecco, comincia così la mia storia d’amore con questa professione.
Da quella scoperta in poi, ogni cosa, ogni scelta e ogni speranza è convogliata sul mio progetto.
Alle medie tutti i compagni sapevano del mio obiettivo, la scelta delle superiori fu guidata da questo principio e comunque a ogni occasione di scelta tornavo a rinnovare la mia promessa d’amore.
L’iscrizione alla facoltà di Psicologia di uno tra i più rinomati e storici atenei per questa disciplina, fu il pass per realizzare quel mio desiderio partito da molto lontano. Il superamento del test di ingresso fu come un biglietto della lotteria vincente!
Qualche anno, molti esami e libri dopo, la laurea. Una emozione meravigliosa la proclamazione, dottoressa in Psicologia… io! Veronica, cresciuta ma con ancora lo stesso sogno, con una passione smodata per i dettagli, ciò che agli sguardi distratti sfugge, con un amore viscerale verso ciò che non è immediato e scontato e con la sempreverde voglia di fare di quella passione un esercizio quotidiano.
La comunicazione felice ad alcuni di quei compagni che già alle medie sapevano che stavo lavorando a un progetto e attendevano la notifica del traguardo.
Mesi dopo la laurea ricordo che ancora qualche mattina mi alzavo e chiedevo ai miei coinquilini di allora se gli avessi già detto che alla fine ci ero riuscita, che ero riuscita a realizzare il mio desiderio. Ricordo bene la faccia del coinquilino-più-simpatico-del-mondo, mentre sorrideva e rispondeva ironicamente “ah davvero? Alla fine ti sei laureata in psicologia? !… no, non ce lo avevi ancora detto!” E altre volte invece con tono comprensivo e rassegnato ” si, Veronica, mi pare di averlo saputo che alla fine ti sei laureata proprio in psicologia“.
Più di ogni cosa, mi ha emozionato poi la comunicazione dell’ordine degli psicologi, nel 2013: iscritta all’albo. 8603 il mio numero di iscrizione. Un numero che era molto più di un titolo. Con quel numero la comunità degli psicologi mi stava dicendo che avevo fatto tutto quanto era necessario per poter finalmente essere autorizzata all’esercizio della professione. In altre parole, ci ero riuscita! Ero riuscita ad acquisire le conoscenze per cominciare a capire le persone ed ero riuscita anche ad essere autorizzata a farlo, per lavoro.
Quanta emozione!
Ma la vera emozione, quella piena, sconvolgente e vitale, la grande e impagabile vibrazione è arrivata dopo. Davvero.
Che privilegio poter vedere ciò che molti occhi non riescono a cogliere, poter ascoltare storie inedite e a volte inconfessabili e partecipare alla progettazione del loro proseguimento, poter accogliere i racconti di una persona, a volte frastagliati e delicatissimi, poterli custodire e restituirli qualche volta, più nitidi, al netto da qualche senso di colpa, arricchiti di comprensione e più liberi dal giudizio.
Che gioia poter assistere all’avvicendarsi di emozioni, all’ inaugurazione di nuove strade per nuove mete o all’apertura di frontiere prima invalicabili…
E ancora quanta ricchezza nelle parole non dette, negli sguardi che urlano, nelle labbra barricate in sonori silenzi che rivelano senza voce parole non altrimenti pronunciabili.
Quanta vita mi regala ogni incontro con una persona che decide di prendere in mano la possibilità di scegliere per sé, con il mio aiuto, dento la propria storia.
Parte di questa mia storia d’amore è ben narrata dalla voce di Fabrizio De Andrè nella prima parte del brano “Un medico “. La canzone usa la metafora dei ciliegi malati, ma parla appunto di un medico, nel mio caso forse si tratterebbe di fiori non sbocciati, gemme ferite, foglie sciupate.
Di seguito il link e un pezzo del testo.
Da bambino volevo guarire i ciliegi
quando rossi di frutti li credevo feriti
la salute per me li aveva lasciati
coi fiori di neve che avevan perduti.
Un sogno fu un sogno, ma non durò poco
per questo giurai che avrei fatto il dottore
e non per un Dio ma nemmeno per gioco:
perché i ciliegi tornassero in fiore,
perché i ciliegi tornassero in fiore.
E quando dottore lo fui finalmente
non volli tradire il bambino per l’uomo
e vennero in tanti e si chiamavano gente
ciliegi malati in ogni stagione
Ps.
Per Enrico. Grazie. Sei stato nei miei racconti per anni e continuerai ad esserlo, perché la nascita di un grande amore non si dimentica.
Per il coinquilino simpatico: si, lo so che non erano solo mesi, ma anche anni dopo la laurea… ma appunto con il maggior passare del tempo si rischiava di dimenticarsene e io avevo il dovere morale di tenere vivo l’entusiasmo verso un sogno coronato e partito da molto lontano ( e ok, pagavo la pazienza con porzioni di tiramisù )